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Anelli, Ordine dei medici, "Impreparati ad affrontare l'infodemia"

Anelli, Ordine dei medici, "Impreparati ad affrontare l'infodemia"

Medici e giornalisti si sono trovati impreparati ad affrontare l'infodemia. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, è una delle personalità più coinvolte nella comunicazione della pandemia. L’alto tributo di vittime tra i medici e le autorevoli e preparate indicazioni per affrontare l’emergenza hanno posto l’Ordine dei medici al centro dell’informazione. Ecco la prima parte dell'intervista che sferza il mondo scientifico e quello della comunicazione.

Come Federazione degli ordini dei medici come avete scelto di comunicare durante questa pandemia?

«Sin da subito, con le informazioni e le notizie che si sovrapponevano a ritmo incalzante, abbiamo compreso che il cittadino aveva bisogno di punti di riferimento sicuri e affidabili. Abbiamo allora riunito tutte le comunicazioni sul Covid, che comprendevano, oltre alle nostre, anche quelle ufficiali di Ministero della Salute, Aifa e Istituto Superiore di sanità, in un’unica sezione del portale istituzionale. Abbiamo inoltre implementato la produzione di schede, infografiche, video per il nostro sito Dottoremaeveroche,  rivolto principalmente ai cittadini, riunendole, anche qui, sotto un unico banner. Si è moltiplicata la presenza e l’attività sui social, anche con contenuti creati ad hoc. Inoltre, abbiamo cercato di diventare punto di riferimento anche per i giornalisti e i media, quale fonte verificata di informazioni e di notizie.

I risultati mostrano un buon feed-back da parte sia dei media sia dei cittadini.  36.000, sono state, a un anno dall’inizio dell’epidemia, il 20 febbraio 2020, le uscite complessive (stampa, web, RTV) sui media nazionali. Cui si sono sommate quelle sulla stampa internazionale, europea, del Regno Unito, cinese, giapponese, russa, americana (USA e paesi del Sudamerica). Il nostro sito Dottoremeveroche, che ha come mission veicolare informazioni scientifiche e corretti stili di vita ai cittadini, ha totalizzato milioni di visualizzazioni, con picchi di 16mila click per schede su argomenti “caldi”: le mascherine fanno male alla salute? I tamponi danneggiano il cervello? Più che raddoppiate anche le interazioni sui social.

Anche il nostro Fnomceo Tg Sanità, tutto dedicato alle iniziative della Federazione, si è adeguato ai nuovi argomenti, ritmi, e modalità della comunicazione, facendo ogni settimana la cronaca della pandemia in collegamento con i presidenti degli Ordini più colpiti.

A questa comunicazione che potremmo definire “classica” abbiamo affiancato anche modalità più innovative. Già dal 2018 abbiamo scelto, come Fnomceo, di programmare campagne di comunicazione, rivolte sempre alla popolazione, da attuarsi con l’affissione di manifesti 6 metri per 3 nei principali punti di passaggio delle città, e con spot nei cinema e in tv. Durante la pandemia, abbiamo voluto dedicare queste iniziative all’impegno e ai sacrifici profusi senza risparmio, e anche a costo della vita, dai medici. Abbiamo dunque realizzato la campagna “Io, medico, giuro”, sui valori espressi dal Codice deontologico e dal Giuramento. Lo spot “Ogni vita conta”, che ricorda i giorni più tristi della pandemia e dona speranza per uscirne, così come i biglietti d’auguri di inizio anno.

Sempre in omaggio a medici e infermieri, abbiamo ideato e sostenuto una serie di concerti virtuali, con gli orchestrali che suonavano a distanza dentro quadretti colorati, subito ribattezzati, per la loro somiglianza a quadri, i “Mondrian Musicali”. E abbiamo mandato in onda, su Tv2000, un Concerto di Capodanno, in memoria dei medici e infermieri caduti e di tutte le vittime del Covid».

Secondo lei quali sono stati gli errori e quali le storture che hanno caratterizzato l'informazione nell'anno del covid? Come, invece, dovrebbero comportarsi i media?

«I media hanno reagito, sin da subito, con la produzione e diffusione di una mole incredibile di notizie, con toni anche allarmistici e spesso in contraddizione tra di loro. Tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità, la principale istituzione internazionale che si occupa della salute degli esseri umani, ha coniato il termine “infodemia”, proprio per indicare quell'”abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno”.  Così, mentre il virus si diffondeva a livello globale, altrettanto, in maniera “virale”, appunto, facevano le notizie. Una pioggia di notizie, in cui si incrociavano e si confondevano verità e falsità, dicerie e conferme, ipotesi, assiomi, teoremi, smentite, ridondanze, contraddizioni. Eppure, la gestione delle informazioni è cruciale sotto diversi punti di vista: per il controllo dell’epidemia e per gli effetti che esse provocano sulla popolazione. Ricadute che possono essere positive, con l’adozione di corretti stili di vita e l’adesione attiva a regole di prevenzione. O dannose per la salute e per la società: si pensi agli episodi di intolleranza verso i cittadini cinesi che vivevano in altri Paesi, tra cui l’Italia. O ai cittadini USA finiti al pronto soccorso per aver bevuto candeggina o altri disinfettanti come antidoto al coronavirus, fenomeno amplificatosi dopo un tweet dell’allora Presidente Donald Trump.

Gli autori di uno studio pubblicato sulla rivista Health Psicology, The novel coronavirus (COVID-2019) outbreak: Amplification of public health consequences by media exposure, affermano che, paradossalmente, mentre giornalisti e istituzioni hanno lavorato per comunicare a tutti le informazioni sulle valutazioni e le raccomandazioni sui rischi, è emersa una minaccia correlata: il disagio psicologico derivante dalla ripetuta esposizione mediatica alle notizie sull’epidemia.

Questo ha implicazioni non solo per la sofferenza immediata in una popolazione già alle prese con un problema sanitario senza precedenti e sulle conseguenti ricadute economiche, ma anche per gli effetti nel tempo sulla salute fisica e mentale.

La risposta allo stress può portare a comportamenti di ricerca di aiuto che possono essere sproporzionati o comunque non raccomandati in risposta alla minaccia effettiva, determinando un sovraccarico sulle strutture sanitarie e sull’uso delle risorse disponibili.

Gli stessi autori sottolineano che coloro che si occupano della gestione delle emergenze tendono a sottoutilizzare i social media, come fonte di comunicazione del rischio. Un utilizzo strategico dei social media può essere invece un modo efficace per comunicare al pubblico informazioni autorevoli nell’ambito della comunicazione di crisi.

Anche l'articolo Covid-19: "How to be careful with trust and expertise on social media", pubblicato su Bmj, sottolinea che  "le comunicazioni in una crisi di salute pubblica sono cruciali quanto l'intervento medico. In effetti, le politiche di comunicazione sono esse stesse un intervento medico".

Del resto, questa di Covid-19 è stata definita la prima pandemia al tempo dei social media, o perlomeno in un contesto nel quale i social, da fenomeno quasi di nicchia, o comunque nascente, come erano nel 2009, anno della pandemia di H1N1, hanno assunto un ruolo massivo e determinante.

Con questa nuova consapevolezza, dobbiamo prendere atto che i social media si sono mossi tempestivamente: Facebook ha deciso di eliminare dalla propria piattaforma e da Instagram notizie false o fuorvianti. Una mossa inedita: in passato, di fronte a fake news segnalate da utenti o dalla rete internazionali di soggetti che vengono attivati per un’azione di fact-checking, non avevano rimosso i contenuti ma soltanto ridotto la diffusione dei post. I rischi per la salute hanno, questa volta, determinato un approccio più rigoroso: anche Twitter è intervenuta stringendo un accordo con il Ministero della Salute, al cui account vengono indirizzate le ricerche e gli hashtag sul tema #coronavirus.

Le organizzazioni sanitarie, i medici e gli “influencer” dei social media dovrebbero indirizzare attivamente il traffico online verso fonti affidabili. Potrebbe essere il momento in cui le piattaforme dei social media assumano un ruolo attivo di salute pubblica e in parallelo utilizzino banner, pop-up e altri strumenti per inviare messaggi direttamente agli utenti.

E torniamo ai media “tradizionali” e a quelle che lei definisce “storture”. Analizzando lo scenario italiano possiamo dire che molte testate hanno ceduto, chi prima chi dopo, alla tentazione di titoli sensazionalisti e “acchiappaclick”, quando non dichiaratamente allarmistici. Questo ha determinato una perdita di fiducia dei cittadini nella scienza, con effetti a cascata sul rispetto delle regole di prevenzione prima e sull’adesione alla campagna vaccinale ora. Occorre ristabilire un clima di fiducia, che non si ottiene con messaggi immotivatamente ottimistici, miracolistici, ma neppure allarmistici. La fiducia la si guadagna comunicando con toni pacati e con onestà intellettuale, e anche riuscendo a far comprendere che il progresso scientifico avanza per tentativi, passando attraverso aggiustamenti e cambi di rotta, e che la conoscenza cresce proprio attraverso l’incertezza costruttiva, il dubbio, ancorandosi alle evidenze che via via si raccolgono e mai aggrappandosi a preconcetti granitici.  

L’altra “stortura” che si è osservata più in Italia che negli altri Paesi è stata quella per cui i giornalisti si sono affidati ai cosiddetti “esperti”: a parlare di coronavirus sui media sono stati virologi, infettivologi, epidemiologi, nel tentativo di aiutare i professionisti dell’informazione a comunicare la scienza nella maniera più corretta ed efficace possibile. Il ricorso agli esperti, però, ha contribuito a polarizzare l’opinione pubblica in scuole di pensiero diverse e diametralmente opposte.  Il dibattito scientifico tra gli esperti è un utile confronto, ed è alla base del progresso delle nostre conoscenze. Quello che a volte non si riesce a far comprendere, specie quando tale dibattito si sposta a livello mediatico, è il senso di una divergenza di opinioni tra scienziati, opinioni che non riguardano i dati, le evidenze, ma la loro interpretazione al fine di mettere a punto strategie e dare consigli. Un recente lavoro dei sociologi Massimiano Bucchi e Barbara Saracino per Science in Society Monitor, l’osservatorio sulla percezione pubblica della scienza in Italia di Observa, ha rilevato come quasi la metà degli italiani sia disorientato dalla discordanza dei consigli dati pubblicamente dagli scienziati, mentre l’11% sia convinto che sarebbe meglio che gli esperti dessero i loro consigli in forma confidenziale. Dobbiamo quindi tutti, a partire da noi medici, dai ricercatori, sino ad arrivare ai media, continuare a studiare, insieme agli esperti di comunicazione della scienza, per individuare gli strumenti più efficaci per coinvolgere i cittadini nelle politiche utili per la loro salute. Dobbiamo farlo soprattutto ora, quando una comunicazione tentennante sui vaccini può mettere a serio rischio la campagna vaccinale.

Noi medici dobbiamo ammettere i nostri errori a livello di comunicazione, dovuti al fatto di esser stati sbalzati dalla clinica, dai laboratori, alla ribalta mediatica. Senza essere preparati a gestirla, senza averne gli strumenti. Allo stesso modo, e forse è ancor più difficile, trattandosi dei professionisti dell’informazione, devono farlo i giornalisti e i media. E l’errore più grande è stato, a mio avviso, quello di aver abdicato al loro ruolo di intermediazione, per affidarlo ad esperti che non ne avevano gli strumenti. In questo hanno giocato un ruolo diversi fattori: la rinuncia, da parte dei media mainstream, ad affidarsi a giornalisti scientifici e medici, che conoscano gli argomenti di cui parlano e le modalità per comunicarle. E la rinuncia, da parte dei giornalisti “generalisti”, costretti da un giorno all’altro ad occuparsi di sanità e di salute, e quindi a giocare su un terreno meno conosciuto, a quel pensiero critico che deve contraddistinguere la loro professione, a quel farsi “cani da guardia della democrazia”, senza seguire le sirene di chi pareva in quel momento più autorevole o, peggio, di chi corroborava la propria tesi. Sono le evidenze a costruire la scienza, non le opinioni e neppure le persone, neppure gli scienziati; neppure i Premi Nobel. Il giornalista ha il dovere di informarsi sulle evidenze, e di trasmetterle, tramite la sua intermediazione, ai cittadini»

FINE Parte prima - CONTINUA

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