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L’arte di mangiare per lavoro

L’arte di mangiare per lavoro

Scrivere di cibo e non rimetterci la salute. Quanto è difficile mantenere il giusto equilibrio psicofisico quando si fa il critico enogastronomico di mestiere? Il Festival ha provato a chiederlo a tre note firme del settore: Edoardo Raspelli , per 21 anni alla guida di Mela Verde; Eleonora Cozzella critico gastronomico di La Repubblica e autrice di 2 libri, Pasta revolution e La carbonara perfetta; Luca Iaccarino, collaboratore di Vanity Fair e DRepubblica.

Anche in questo caso ci sono alcuni miti da sfatare: un critico non si abbuffa e non ama andare nei ristoranti dove si mangia pochissimo e si spende molto. C’è anche chi pur vantando una media di 240 pasti fuori casa all’anno ha appena perso 7 kg

Chi scrive di cibo è come un atleta, necessita di concentrazione, predisposizione, curiosità e allenamento. Nel mestiere del critico gastronomico c’è anche un importante elemento antropologico: un piatto che entra a fa parte della tradizione di un popolo nasce sempre da una soluzione escogitata per sopravvivere, per non sprecare. Un esempio? L’Hakarl, il piatto tipico Islandese preparato con carne di squalo fermentata: è in credibile come un cibo apparentemente così respingente al palato, possa essere diventato un piatto tipico grazie al suo valore storico e sociale. Mangiare per lavoro quindi richiede anche e soprattutto apertura mentale.

Chi fa il critico di mestiere deve trovare un equilibrio tra gli impegni di lavoro e il proprio corpo. Grazie all’aiuto di un dietologo, il critico può gestire il proprio lavoro come un atleta, alternando gara, allenamento e riposo. I critici gastronomici sono dei professionisti e, come gli atleti, devono seguire delle regole, nulla può essere lasciato al caso. Alcune di queste regole? Andare a lavoro a digiuno (come il cane da tartufi, che va a caccia a stomaco vuoto); evitare pasti troppo dilatati nel tempo, perché si perde la capacità di discernere i sapori; cambiare per evitare l’assuefazione.

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