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Teniamo le bufale social lontane dalle redazioni

Frutta con l’Aids, cani randagi portati in Cina per essere mangiati e topolini impanati. Sono solo alcuni esempi delle cosiddette "bufale", le notizie false o inventate che si leggono ogni giorno, specialmente sul web e sui social network, dove rimbalzano di pagina in pagina, da un account all’altro. “Ci caschiamo tutti, non abbiamo elementi di difesa”, afferma Peppino Ortoleva, docente di Scienze della Comunicazione dell’Università di Torino, nella lezione “Tra cancri immaginari e vermi improbabili” al Festival del giornalismo alimentare, moderata da Antonella De Santis del “Gambero Rosso”.

I motivi per cui si diffondono le bufale sono molteplici: dalle fonti sbagliate o inesistenti, ai siti che sfruttano la somiglianza col nome di testate nazionali sperando che l’utente non se ne accorga ("Il Giomale" scimmiotta "Il Giornale"). Claudio Michelizza e David Puente sono i due inventori del Bufale.net, un sito nato proprio con l'obiettivo di smascherare notizie sbagliate e confermare, invece, quelle vere. “Le condivisioni sui social di questo tipo di notizie raggiungono numeri rilavanti (anche trecento o cinquecentomila), le successive smentite, un volta svelato l'errore, spesso soltanto mille”, afferma Michelizza.

Soprattutto in Italia le rettifiche non soltanto non vengono considerate, ma spesso arrivano anche con netto ritardo, quando ormai la diffusione del falso si è già propagata. “Gli argomenti caldi sono quelli che ci toccano da vicino – dice Puente – quindi la carne cancerogena o con l’aids e le birre con sostanze tossiche. Alcuni studiano quel che interessa alle persone e lo sfruttano per guadagnarci ricavi pubblicitari dati dalla condivisione della notizia”. Un meccanismo pericoloso, specialmente perché spesso danneggia aziende o cibi, che non vengono più comprati: “Le bufale puntano sull’allarmismo, ultimamente si toccano spesso cibi esotici, come il sushi o il kebab che si diceva fosse fatto con la carne di topo”, dice Michelizza. Queste informazioni, però, non sono frutto dei social, ma hanno radici lontane: “appartengono alla società umana, prima si diffondevano con le voci – commenta Ortoleva – Vengono diffuse per vari motivi, economici, perché si pensa che siano divertenti oppure in buona fede. I giornalisti in questo sono scoperti, sono una categoria indifesa per la fretta con cui devono muoversi”. Proprio per questo, secondo Michelizza l’unica arma di difesa è il controllo: “Quello che possiamo fare è non condividere subito, ma leggere e impiegare le nostre risorse e il nostro tempo per essere sicuri che la notizia sia vera. A volte è sufficiente leggere i commenti degli utenti per smascherare la bufala”.

di Azzurra Giorgi e Gianluca Palma (Futura)

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