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Coronavirus, le precauzioni con il cibo

Coronavirus, le precauzioni con il cibo

Di Massimiliano Borgia

L’alimentazione non trasmette direttamente il virus Covid-19.

Come era già accaduto per l’Aviaria e la Suina il virus non si trasmette attraverso l’ingresso nell’apparato digerente ma, trattandosi di una malattia bronco-polmonare, contagia con l’ingresso nell’apparato respiratorio.

È l’agenzia europea per la sicurezza alimentare, l'EFSA a confermarlo. «Attualmente non ci sono prove che il cibo sia fonte o via di trasmissione probabile del virus – osserva Marta Hugas, direttore scientifico EFSA - Le esperienze fatte con precedenti focolai epidemici riconducibili ai coronavirus, come il coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave (SARS-CoV) e il coronavirus della sindrome respiratoria mediorientale (MERS-CoV), evidenziano che non si è verificata trasmissione tramite il consumo di cibi. Al momento non ci sono prove che il coronavirus sia diverso in nessun modo».

Quindi non si trasmette attraverso ingestione. Nemmeno si trasmette dagli animali morti o dai prodotti di origine animale come uova e latte. Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) afferma che, mentre in Cina sono stati animali, vivi, la probabile fonte dell'avvio dell’infezione ora la malattia si sta diffondendo tra gli umani, principalmente attraverso le goccioline respiratorie che le persone emanano quando starnutiscono, tossiscono o espirano. Esattamente come fanno molte altre influenze.

«Scienziati ed Enti di tutto il mondo – conferma l’EFSA - stanno monitorando la diffusione del virus e non si registrano segnalazioni di trasmissione tramite il cibo. Per tale motivo l'EFSA non è attualmente coinvolta nella risposta ai focolai epidemici di COVID-19. Sta tuttavia controllando la letteratura scientifica per eventuali nuove e pertinenti informazioni».

Ma, attenzione; non sarebbe corretto affermare che “il cibo” non trasmette il virus. Anche se non attecchisce nell’apparato digerente, il Coronavirus contenuto nelle goccioline umide, si posa sul cibo come su qualunque altra superficie.

I cibi sono fatti di “superfici” come la plastica, il vetro, l’acciaio e come tali accolgono i virioni, cioè le particelle più piccole di un centesimo di un batterio che stanno in quiescenza in attesa di parassitare le cellule in vita di un organismo umano.

Manipolando il cibo si può, quindi, venire a contatto con i virioni del Coronavirus esattamente come con altri oggetti.

Ma ci sono alcune differenze.

Intanto una contaminazione da virus è diversa da una contaminazione da batteri. I virioni in quiescenza sono sempre e solo quelli che si sono depositati, non si possono moltiplicare fuori dal corpo umano (o, forse, di un animale). Se il macellaio malato starnutisce senza protezioni su una bistecca appena tagliata, sulla carne si depositano anche i virioni che, a distanza di ore, saranno sempre nello stesso numero. Se, invece, allo stesso macellaio la bistecca cade per terra o la appoggia su un tagliere non sanificato o la tocca con mani sporche, questa accoglierà batteri che inizieranno a moltiplicarsi immediatamente e, dopo qualche ora, saranno milioni.

Ma la differenza la fa anche il numero di contatti che normalmente subisce una superficie alimentare rispetto alle superfici di altri materiali in contesti pubblici: quante volte viene toccata una maniglia di ingresso di un condominio o di un negozio? E una sbarra per reggersi sul tram? E una banconota?

Di solito il cibo viene a contatto con poche mani e poche persone.

Facciamo l’esempio di un frutto o di un cespo di lattuga. Viene toccato alla raccolta, poi toccato (forse) per il travaso in un box per il trasporto, poi ancora (forse) toccato nel travaso nel cassone del magazzino di conservazione, poi toccato per la sistemazione in cassetta per il trasporto al centro agroalimentare o al centro di smistamento della catena del supermercato, infine, viene toccato per essere disposto sul banco del fresco o per essere confezionato in pacchetti o retine. Tra tutte queste manipolazioni possono passare alcune ore o giorni. Se i virioni si fossero depositati potrebbero anche già essere inattivi, oppure potrebbero essere stati, in parte, asportati dalle manipolazioni successive.

Per la carne e il pesce i contatti sono più o meno gli stessi, anche se nel macello, nel centro di sezionamento e durante la porzionatura sul banco le norme igieniche prevedono sanificazioni giornaliere delle superfici e dispositivi di protezione per il personale. Stesse regole valgono per la vendita del formaggio dove il rischio di manipolazione entro il tempo di distruzione del virus è nel momento del taglio della porzione. Lo stesso vale per i salumi. Per il pane la manipolazione dalle ceste allo scaffale e poi alla vendita comporta sempre una perdita di parti esterne, come farine e briciole, che distaccano, in parte, anche l’eventuale virus.

Un discorso a parte lo meritano le superfici delle confezioni a partire dalle lattine per arrivare ai barattoli e alle buste. 

Ma cosa possiamo fare noi per ridurre il rischio di venire, eventualmente, a contatto con il Coronavirus attraverso la manipolazione degli alimenti?

L'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha pubblicato sul suo sito delle raccomandazioni che prevedono di privilegiare il consumo di alimenti cotti, in particolare carne e pesce. I Coronavirus, infatti, vengono inattivati a 70 gradi. Quindi, anche la pastorizzazione annulla il virus e i cibi pastorizzati, come quelli che sono stati precotti oltre i 70 gradi hanno visto eliminare tutti i rischi.

Ma la stessa OMS, raccomanda in tempi di Coronavirus di accentuare «stili di vita salutari a iniziare da una dieta corretta». Se si va a vedere cosa intende l’OMS per corretta alimentazione si scopre che da molti anni ci raccomanda di consumare molta frutta e verdura anche fresche.

Oggi dovremmo intensificare questa alimentazione fresca perché, quando siamo più vulnerabili, dobbiamo curare il nostro sistema immunitario curando il nostro microbiota intestinale e non possiamo rinunciare ad assumere vitamine termolabili insieme ad antiossidanti e altri micronutrienti utili.

Per questo, forse, il consiglio migliore è quello di fare attenzione ai tempi di distruzione del virus.

Sul periodo di inattivazione del virus all’esterno di un organismo vivente non si sa molto e forse cambia per temperatura della superficie, per umidità, per caratteristica della superficie. Di solito, i Coronavirus sono inattivi dopo 12 ore ma un virus come quello dell’influenza Mers è stato trovato attivo fino a tre giorni.

Inoltre, il virus non patisce il freddo: in congelamento i virus possono resistere due anni.

Per mangiare frutta e verdura fresca, quindi meglio comprare e consumare dopo due-tre giorni. Quindi meglio scegliere cosa si conserva di più: per esempio cavoli, carciofi, radicchio rosso, lattuga a palla, mele, pere, arance, banane

Meglio ancora acquistare prodotti confezionati: non è molto sostenibile, ma ora è meglio fare così.

Il prodotto fresco confezionato è venuto meno a contatto con le mani degli operatori ed è protetto dalle contaminazioni una volta confezionato con pellicola (e non retina). È quanto raccomanda anche l’Accademia nazionale di agricoltura, che «invita i produttori e la catena agroalimentare italiana a prediligere il collocamento sui mercati, o nelle grandi catene della GDO, di prodotti ortofrutticoli preconfezionati al fine di conservare la qualità alimentare in un ambiente in sicurezza igienico-sanitaria. Infatti, il consumo di prodotti ben sigillati è una strategia sicura e igienica in un momento di grave infezione come quello che stiamo vivendo e permette di accedere alla spesa in maniera più saltuaria per continuare a mantenere uno stile di vita sano e rispettoso della salute».

 

 

 

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