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#Ripartiamoinsieme, Paola Uberti, "Più empatia nella comunicazione"

#Ripartiamoinsieme, Paola Uberti, "Più empatia nella comunicazione"

Paola Uberti, ¾ di sangue torinese, ¼ modenese, classe 1975, in campo enogastronomico è nata nel 2011 come food blogger. Oggi è autrice di eBook che fondono cultura e cucina, comunicatrice enogastronomica, creativa e grafica specializzata nel settore. Nel 2016 ha deciso di mettere a frutto la sua esperienza di blogger e le collaborazioni con le aziende facendone il proprio lavoro, creando il sito LIBRICETTE.eu, la prima libreria elettronica dedicata agli ebook di cucina. Nel 2019 ha fondato il magazine online indipendente Sapere di Gusto con Francesca Avetta e Francesco Cugliari.

Paola crea e diffonde progetti di comunicazione e visibilità per le aziende del settore cibo e bevande di qualità. Valorizzazione dei prodotti, dei territori, delle persone e coinvolgimento emotivo sono alla base del suo lavoro.

Cosa significa parlare al pubblico di un produttore e dei suoi prodotti?

«Significa assumersi un’enorme responsabilità e farlo con coscienza.
Quando un Cliente mi commissiona la realizzazione di un ricettario o decide di essere presente nel mio magazine, implicitamente mette nelle mie mani un marchio che rappresenta una risorsa per lui e per i suoi dipendenti. Mi affida una storia che spesso coinvolge famiglie o atti di rinascita, identità territoriali e principi etici.

Il mio compito è creare empatia senza prescindere dal rispetto dei ruoli e sviluppare un progetto su misura che sia in grado di rappresentare il Cliente nel migliore dei modi, facendo arrivare al pubblico non solo atti di marketing, ma qualcosa di vivo e pulsante che comunichi anche valori immateriali».

Chi sono i destinatari dei tuoi e-Book o ricettari e del tuo magazine?

«Libricette.eu e Sapere di Gusto si rivolgono al pubblico con il linguaggio dei cittadini affinché le informazioni relative ad aziende e prodotti possano raggiungere i consumatori in una dimensione domestica e quotidiana, nella loro vita reale, insomma».

A proposito di vita reale e della contingente emergenza Covid-19, come sono cambiati gli scenari del settore enogastronomico?

«Rispondo sulla base della mia esperienza con protagonisti del settore piccoli e medi, siano essi produttori, commercianti o ristoratori.

Sto assistendo ad ammirevoli atti di resistenza e determinazione a non soccombere, ma anche a grande preoccupazione che a volte sfocia in rabbia.

Venendo al cuore della domanda, non è possibile dare una risposta valida per tutti. Le realtà sono molte e diverse, sia per “dimensione”, sia per ciò che concerne le dinamiche commerciali e i destinatari delle stesse e tante sono le variabili da considerare.

Per fare solo alcuni esempi, chi già lavorava rivolgendosi esclusivamente al consumatore finale, se ha avuto la forza logistica ed economica, nonché l’intraprendenza, di convertirsi al delivery, non ha subito troppi danni; quantomeno resta in piedi.

Alcuni piccoli esercizi commerciali che sono rimasti aperti durante il lockdown hanno acquisito nuovi clienti che, costretti a non allontanarsi dalla propria residenza per fare gli acquisti quotidiani, hanno scoperto le realtà di prossimità, anche stimolati dal voler evitare le lunghe attese in coda fuori dai supermercati.

Produttori e artigiani il cui fatturato nel periodo pre-pandemia era sostenuto in gran parte dalla ristorazione, hanno invece subito un duro colpo che stanno cercando di limitare mettendo in atto azioni volte a incrementare la vendita al dettaglio, anche attraverso il suddetto delivery.

Per i ristoratori il discorso è ben diverso. Molto spesso mi raccontano che le consegne a domicilio non sono sufficienti a tamponare l’emorragia economica provocata dalla chiusura ed esprimono forti perplessità riguardo alle normative che dovrebbero entrare in vigore a breve, legate alla riorganizzazione di accessi e spazi perché in molti casi queste non sarebbero armoniche rispetto alle necessità di incasso finalizzare ad assicurare la continuità dell’attività.

Ho notato che molti protagonisti, soprattutto ristoratori, si stanno muovendo per fare squadra creando nuovi progetti che uniscono business e solidarietà. Trovo questa dimensione molto interessante perché fa riflettere sulla possibilità di far convivere gli affari e la propensione verso il prossimo, specie quando questo è in grave difficoltà. Tali iniziative potrebbero aprire nuovi scenari relativi al lavoro e a come esso è inteso, percepito e svolto.

Un fatto che mi preme sottolineare è inoltre l’importanza che il web e i social hanno assunto nel mettere in connessione domanda e offerta in un panorama inedito che nessuno si sarebbe aspettato e che coinvolge un settore (commercio alimentare al dettaglio delle piccole realtà, eventi, ristorazione…) che della relazione fisica e diretta tra persone faceva la propria chiave di volta.

Parlando con Clienti e potenziali tali, le parole che più spesso sento pronunciare sono galleggiare e fare di necessità virtù».

Cosa è cambiato dal lato consumatore?

«In questo caso abbiamo assistito a diversi cambiamenti in un lasso di tempo relativamente breve. Io credo che tali variazioni siano state influenzate principalmente da reazioni emotive.

Il cibo è stato un rifugio soprattutto nella fase iniziale della pandemia perché onnipresente nella nostra vita in quanto legato a necessità fisiologiche e a innumerevoli significati simbolici e implicazioni psicologiche.
Tutti ricordiamo i primi accaparramenti che tanto ci hanno fatto pensare a scenari bellici e che hanno rivelato massicci acquisti di prodotti a lunga conservazione.

Ricordiamo anche “la fase della farina e del lievito” che erano scomparsi dai supermercati e dai negozi a causa di acquisti massicci. La mi idea è che tale fase, più che essere stata motivata da paure di privazioni, sia stata innescata dalla necessità pratica di passare il tempo in casa e, a livello inconscio, di creare qualcosa che lievitando, cresce, si sviluppa, assume identità e appaga, come fosse una metafora e una celebrazione della vita per esorcizzare il timore della morte, indotto da una malattia nuova che ha travalicato i confini della letteratura e della cinematografia fantascientifiche, irrompendo violentemente nella realtà e insinuandosi in ogni anfratto dell’esistenza.
Penso inoltre che non sia trascurabile l’equazione carboidrato = consolazione.

Ancora con riferimento ai consumatori, penso valga la pena parlare del tema Io mangio italiano nel quale confluiscono un ritrovato sentimento patriotico - legato all’istinto di aggregarsi - unitamente alle esortazioni di vari attori a fare qualcosa di concreto per evitare il collasso dell’economia nazionale. A questo tema sono anche legati aspetti dell’interiorità che ci portano naturalmente ad orientarci verso il cibo e i prodotti di casa e della tradizione - che sono regressivi e confortanti perché spesso ricondotti a genitori e nonni, quindi alla famiglia - sapori conosciuti e rassicuranti, fino a giungere all’orgoglio nazionale».

 

Il Festival del Giornalismo Alimentare, almeno nel panorama torinese, è stato l’ultimo grande evento che si è svolto prima della chiusura come è stata la tua esperienza?

«Il Festival è sempre stata una preziosa occasione per arricchirmi dal punto di vista culturale grazie ai panel, ai laboratori e ai press tour e agli eventi off. Durante l’ultima edizione ho collaborato sul piano della comunicazione riuscendo a viverlo in modo ancor più intenso».

Come vivi personalmente l’emergenza Covid?

«Con grande rispetto nei confronti delle persone gravemente colpite sotto qualsiasi aspetto, sia esso sanitario, professionale, economico, relazionale. Con gratitudine verso chi lavora - e in alcuni casi si sacrifica - per garantire i servizi. Con grande speranza riguardo alla possibilità di non dimenticare per rendere quello che ci aspetta “dopo”, un mondo migliore del precedente, partendo dai propri nuclei affettivi e relazionali, arrivando a ragionare in termini globali. Come un’opportunità del singolo per acquisire nuove consapevolezze, per abbandonare antichi carichi emotivi e mentali, per farcela a dispetto di tutto. Come una dimostrazione del fatto che “fare rete”, aiutarsi e sostenersi reciprocamente sia vitale in ambito privato e professionale. Ma anche cercando di essere una brava persona».

Come ne usciremo?

«Non ho la statura scientifica o istituzionale per offrire soluzioni che possano in qualche modo essere determinanti dal punto di vista pratico quindi rispondo restando in campo umano e relazionale.

Ne usciremo aiutandoci gli uni con gli altri, conferendo ai concetti di flessibilità e adattabilità accezioni e risvolti positivi. Credendo nel valore della bellezza - intesa come positività - dell’empatia, della solidarietà e del rispetto reciproco.
Ne usciremo se sapremo imparare la lezione e traghettare nel dopo, che corrisponderà a un mondo nuovo, le reazioni costruttive che abbiamo avuto durante l’emergenza».

Per concludere, quali sono i tuoi motti?

«“La gentilezza non è stupidità.” “La cucina  mente, corpo e anima.” “Senza emozione non può esistere un buon progetto"».

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